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«Dai che c’ho da fare!». Le riunioni

Quale momento migliore, per  mandare in onda la prima puntata di #NonCeLaPossoFare che il lunedì dopo un lungo ponte? E cosa di più traumatico che iniziare un tale lunedì con una bella riunione? Personalmente, ho scantonato un paio di meeting con un’ottima scusa: dovevo scrivere questo post.

La serie #NonCeLaPossoFare inizia con le riunioni per un motivo molto semplice: ci passiamo un sacco di tempo, in riunione. Secondo un articolo pubblicato su TheMuse.com, i cosiddetti middle managers passano in riunione il 35% delle loro ore lavorative. I più alti dirigenti, invece, superano di slancio quota 50%. Oh, è un sacco di tempo – anche se avrei detto di più – ma non è questo il problema.

Il problema è cosa pensano delle riunioni, i lavoratori che vi partecipano. I top manager – sempre stando a quanto riportato sull’articolo di TheMuse.com, che a sua volta cita una serie di ricerche – ritengono che nel 67% dei casi quello passato in riunioni sia tempo buttato via. Oh, questo detto da gente che, di solito, i meeting li convoca: chissà cosa pensano quelli che invece ci vanno perché costretti, alle riunioni.

Ma le riunioni non sono sempre state un danno! Sembra che la prima riunione nella storia dell’umanità l’abbia convocata un certo Grongu. In una mite serata del Pleistocene Gelasiano, Grongu, tornando a casa, ebbe una spiacevole sorpresa. La grotta in cui era solito dormire era stata occupata da un branco di iene delle caverne, delle simpatiche bestiole con cui però non è prudente intrattenersi la notte.

Grongu chiamò alcuni vicini di grotta e, tutti insieme, si radunarono intorno a un albero. La riunione durò diciassette secondi, il tempo necessario a Grongu e ai suoi amici per raccogliere oggetti contundenti – chi scelse delle pietre, chi dei lunghi bastoni – utili per convincere le iene a cercare un altro rifugio.

Ecco, durante la millenaria storia dell’umanità, questa è sempre stata la funzione delle riunioni: risolvere problemi, insieme. Ci si riuniva per parlarsi, scambiarsi informazioni e opinioni, chiedersi ‘ehi, come va?’,  socializzare un momento difficile, farsi coraggio e darsi forza. Inoltre, le riunioni duravano il tempo che dovevano durare.

E poi… poi sono successe delle cose. Delle sciagure. E le riunioni non sono più state le stesse.

La prima sciagura s’è propagata al motto di «… massì, meglio chiamare uno in più che uno in meno». Si è cominciato a convocare alle riunioni persone che, con i temi da discutere, non c’entravano niente. Con grande gioia delle persone inopportunamente coinvolte, che passano metà del tempo del meeting a capire di cosa si sta parlando, e l’altra metà a cercare una scusa efficace per darsela a gambe.

«L’importante è fare sharing…». Sull’onda di queste parole s’è diffusa la seconda sciagura. Già, l’importante è il condividere, il vedersi, lo scambiarsi sensazioni. E l’obiettivo della riunione? Alla fine, s’è raggiunto, questo obiettivo? Bah, si, no, forse, non so… però abbiamo fatto sharing.

Terza sciagura: le riunioni devono alimentare lo spirito di squadra, migliorare il clima del team. Dunque, durante le riunioni ci vuole concordia. Solo che, volendo perseguire la perfetta armonia, dalle riunioni sono fuggite le differenze di opinione. Perché hai visto mai che se dico che non sono d’accordo con chi ha appena parlato, poi si pensa che io voglia attaccare qualcuno e creare tensione.

Sciagura numero quattro. Anni fa ho lavorato per una società che aveva una sede a Roma e una a Milano. Una volta al mese ci si riuniva tutti insieme, proprio tutti. Cioè, quelli di Milano in uno stanzone a Milano, quelli di Roma in uno stanzone a Roma e poi vai di videoconferenza. Di solito, un minuto prima dell’inizio della riunione, si verificavano questi eventi:
– saltava la connessione, che pure l’IT aveva verificato funzionare bene per tutta l’ora precedente
– qualcuno dei conduttori della riunione era bloccato nel traffico
– qualcuno dei conduttori della riunione riceveva una telefonata fondamentale (minimo da un Ministero, alle volte dal Quirinale).

Insomma, le riunioni iniziavano sempre con almeno tredici minuti di ritardo. Quando finalmente si cominciava, il nostro capo diceva «ecco, abbiamo appena perso ventiquattro ore e 17 minuti di lavoro», dato che tirava fuori moltiplicando il numero di persone presenti per il ritardo accumulato. Già, perché la quarta sciagura è proprio questa: gli orari che non si rispettano.

Solo che il più delle volte, si considera esclusivamente l’orario di inizio della riunione. E quello di fine? Sembra, infatti, che non si siano ancora estinte le riunioni  senza un’ora di chiusura. E sembra siano ancora più diffuse le riunioni in cui l’orario di fine esiste, sì. Ma è una formalità: al suono di «… dai, affrontiamo ancora questo punto», persone con i pensieri che fluttuano a distanza siderale, vengono tenute intorno al tavolo a discutere di cruciali modifiche al budget. E quando una settimana dopo le stesse persone si accorgono che i numeri del budget sono cambiati, il loro commento è «ehi, ma chi cavolo ha deciso questa roba?». Eh, voi l’avete decisa, sul finire della riunione. Solo che, ormai, eravate cotti e non capivate più nulla.

La quinta sciagura che s’è abbattuta sulle riunioni consiste nell’averle trasformate in esami universitari. Bisogna prepararsi, prima delle riunioni. Il che non è un male in sé, se si tratta di una roba che si fa in fretta. Ma se si passano ore a studiare, prima delle riunioni, la faccenda si complica.

In altre parole, le riunioni possono fare danni anche prima che inizino. Secondo un articolo del Journal of Consumer Research (riassunto da Repubblica), i meeting hanno il potere di ridurre il tempo a disposizione per lavorare, prima che il meeting stesso inizi. Funziona così: sono le 9 del mattino, e io ho una riunione alle 11. Quanto tempo ho per lavorare? Beh, al netto di un caffè e del tempo per raccogliere quel che mi serve e andare in riunione, diciamo un’ora e tre quarti. Che non è poco. Si possono fare un sacco di cose, in un’ora e tre quarti.

Ma, dicono gli estensori di questa ricerca, se ad aspettarci c’è una riunione, ci sembra di poterne fare ben poche, di cose. Influenzati dall’incombenza del meeting, evitiamo di fare una telefonata importante, di studiare un documento cruciale, di iniziare un’analisi di dati rilevanti per il nostro lavoro.

Dobbiamo dunque darci da fare per cancellare le riunioni dalla faccia del pianeta? No, certo che no. Si tratta, invece, di fare in modo che le riunioni siano effective, smart, inspiring; che abbiano il giusto timing, task ben definiti e partecipants davvero engaged! Sì, tutto questo.

Però, tanto per cominciare, impariamo a sopravvivere, alle riunioni (magari anche grazie a un corso in e-learning. Che così non ci dobbiamo riunire).

 

 

 

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